“Affari in fumo”, archiviata l’inchiesta sulla cannabis light dopo il maxi-sequestro
Vendere cannabis light non è legale ma non è nemmeno punibile, è quello che conferma la procura di Taranto che ha disposto l’archiviazione per le 56 persone coinvolte nell’inchiesta del 2018 “Affari in fumo”, che aveva portato al sequestro di oltre 1 tonnellata di cannabis light nella provincia di Taranto e anche in altre regioni tra cui Campania, Sicilia, Lazio e Lombardia. L’operazione disposta dalla procura di Taranto si conclude dopo più di 1 anno con l’archiviazione per “asimmetrie interpretative”, in altre parole significa che la normativa che dovrebbe regolamentare la vendita delle infiorescenze è talmente confusa da rendere, come spiega la procura stessa, “inevitabile l’errore nel quale sono incorsi gli indagati nel momento in cui hanno dovuto fronteggiare una norma che non brillava per chiarezza, tanto da indurre i tribunali a determinazioni non collimanti tra loro e anzi a decisioni di segno opposto”.
Tutte le persone coinvolte nell’inchiesta sono state assolte per colpa di una legge poco chiara, e di pronunce e circolari contrastanti che hanno permesso lo sviluppo del business della cannabis light in alcune zone d’Italia piuttosto che in altre. Quindi mentre alcuni imprenditori sono a processo altri portano avanti la propria attività, creando così una situazione di enorme ingiustizia e disparità.
In Italia, lo ricordiamo, la legge 242 del 2016 – che contiene le norme per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa – consente la coltivazione di varietà di canapa con una percentuale di THC inferiore allo 0,6. Se l’agricoltore mantiene questa soglia è “esente da responsabilità”. Dall’altro lato, però, la magistratura agisce prendendo in considerazione anche un altro provvedimento legislativo, il “Testo unico sugli stupefacenti” che punisce le condotte di chi “vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia” le sostanze “stupefacenti o psicotrope” presenti in due tabelle indicate nell’articolo 14 del decreto. Il THC è la sostanza contenuta in queste tabelle per cui non è indicato nessun “valore soglia” ma proibisce tutte le sostanze che contengano qualsiasi valore di tetraidrocannabinolo. In sostanza ciò che permettono alcuni provvedimenti lo vietano altri. Per avere un’idea chiara sulla questione abbiamo contattato l’avvocato Zaina che chiarisce: «L’intervento della magistratura appare tale da suscitare rilevanti perplessità, perché mirava a scoprire chissà quali illeciti e non li ha trovati. Va detto, infatti, che l’indagine in questione non ha avuto alcun tipo di verifica scientifica, tanto che i PM affermano disinvoltamente ed espressamente che l’analisi tossicologica sui prodotti asseritamente stupefacenti (ma allo stato solo presunti tali) non pare necessaria. Vi è, quindi, da domandarsi come non si sia inteso verificare l’unico elemento che poteva sortire dati favorevoli agli indagati e cioè l’effettiva presenza di THC nei prodotti. Questo grave inadempimento del PM viene colmato discutibilmente con una soluzione finale, cioè ricorrere all’espediente dialettico della assenza di dolo in capo agli indagati, (in carenza dell’accertamento tossicologico) costituisce, rispetto alle emergenze processuali, una soluzione errata ed inaccettabile, nonché troppo comoda per gli inquirenti.
Quindi se da un lato gli imputati sono fortunatamente stati assolti d’altra parte non riavranno la merce sequestrata, che verrà distrutta senza nessuna verifica sull’effettiva presenza di principio drogante, e non potranno riprendere l’attività, registrando un danno economico oltre che di immagine molto grave. Imprenditori considerati erroneamente spacciatori per aver investito in un settore in crescita in tutto il mondo.
Dal giorno del sequestro ad oggi non sembrano essere state svolte indagini da parte dell’accusa e «Non contano – aggiunge l’avvocato – a nulla le certificazioni prodotte dalle parti ed attestanti la regolarità e conformità dei prodotti detenuti. È inammissibile come le Procure (e gli stessi GIP) si intestardiscano nel non volere considerare la deroga espressa introdotta dalla sent. n. 30475/19, che riconosce il commercio di canapa light in assenza di principi droganti e, quindi, nel non dare corso ad indagini appropriate. Questo atteggiamento determina la grave conseguenza che i prodotti sequestrati vengano ingiustamente confiscati, pur non essendo effettivamente stupefacenti, con irreparabili danni.»
È quindi sempre più evidente l’urgenza di normare e regolamentare un settore in crescita e sicuramente redditizio per l’Italia, sperando che gli organi competenti la smettano di ignorare una situazione urgente e importante per il paese.