Contro-informazione

3 cose da sapere per dare un giudizio finale su EXPO 2015

EXPOEsi­stono due chiavi di lettura possibili per parlare di ciò che è stato Expo 2015 e misurarne successi e problematicità. La prima è quella che adotta come unico metro di giudizio tutto ciò che attiene all’ideologia totalizzante del Pil, quindi soppesarne i risultati in ter­mini di milioni di visi­ta­tori, file ai padiglioni, visite di capi di Stato, transazioni delle carte di cre­dito e pre­no­ta­zioni alber­ghiere. La seconda chiave di lettura possibile è invece quella di misurare i successi (e gli insuccessi) immateriali e di prospettiva dell’esposizione, cercando di coglierne i risultati e i frutti seminati per un futuro migliore sotto i profili della sostenibiità ecologica, sociale e alimentare del pianeta. Visto che l’analisi basata su risultati contabili di Expo la troverete un po’ su ogni media, noi in questo articolo ci soffermiamo sul secondo aspetto, ovvero quel “Nutrire il pianeta”, che era lo slogan della manifestazione.

visitatori di Expo con pranzo al sacco
visitatori di Expo con pranzo al sacco
1. IL CIBO E L’EXPO, QUALI IDEE SONO EMERSE PER NUTRIRE IL PIANETA?

Il cibo e la ricerca di nuove idee per nutrire in maniera sana e sostenibile tutti e sette i miliardi di cittadini del pianeta Terra era il focus dell’edizione 2015 dell’Expo. Eventi e incontri anche utili in questo senso non sono mancati, ma se ciò che ci si aspettava erano soluzioni definitive per “com­bat­tere la denu­tri­zione e la mal­nu­tri­zione, pro­muo­vere un equo accesso alle risorse natu­rali, garan­tire una gestione soste­ni­bile dei pro­cessi pro­dut­tivi” (questo l’obiettivo della Carta di Milano) c’è da rimanerne delusi: le Esposizioni Universali sono per natura innanzitutto business, relazioni e divertimento e l’edizione milanese non ha fatto eccezione. L’attenzione a questi temi è stata in un certo senso direttamente proporzionale alla loro poca rilevanza spaziale all’interno di Expo, dove la Cascina Triulza (lo spazio dedicato al no profit) e gli stand di sensibilizzazione come quello di Slow Food, erano semi-nascosti dopo decine e decine di mega stand degli stati e delle multinazionali. Dopotutto come ci si potevano aspettare soluzioni reali per nutrire il mondo da un’esposizione nutrire che non è riuscita a nutrire nemmeno i suoi visitatori occidentali e benestanti? Visto che tra file eccessive e prezzi pretenziosi il grosso dei visitatori ha preferito mangiarsi un panino portato da casa. Di certo, quando è stato messo alla prova, anche il pubblico stesso ha dato dimostrazione di una sensibilità ancora tutta da conquistare: il padiglione della Svizzera aveva tentato un “gioco” semplice e istruttivo, quattro torri con quattro beni primari: acqua, mele, sale e caffè. Da ognuna di queste torri l’avventore poteva rifornirsi senza limiti imposti, ma c’era un avvertimento: “Ce n’è per tutti?” che invitava a prenderne solo una porzione a testa e a lasciare le risorse anche a chi sarebbe arrivato dopo. Ebbene, dopo appena 20 giorni le scorte di acqua e mele si erano già ridotte di un quarto.

Postazione per la firma della Carta di Milano
Postazione per la firma della Carta di Milano
2. COSA DICE E A COSA SERVIRA’ LA CARTA DI MILANO?

Il lascito principale di Expo è raccolto nella Carta di Milano, che nelle intenzioni dell’organizzazione rappresenta la “vera eredità di Expo”. La stesura, coordinata non senza polemiche dalla Fondazione Barilla, è culminata in un documento che verrà consegnato prossimamente al segretario dell’Onu Ban Ki-Moon con l’obiettivo dichiarato di concorrere alla formulazione di principi “per uno sviluppo sostenibile e per sradicare la fame nel mondo”. Dal principio l’obiettivo è stato quello di coniugare gli interessi di tutti, anche se conciliabili non erano, così a partecipare alla stesura della Carta c’era di tutto e il suo contrario: multinazionali e movimenti per i beni comuni, Ong indipendenti e istituzioni, attivisti e manager. Naturalmente insieme questi interessi non potevano stare e, altrettanto naturalmente, la voce degli attivisti e dei movimenti è ben poco presente nel risultato finale. La Carta si risolve in una serie di raccomandazioni di buon senso, rigorosamente non vincolanti, che insistono su concetti come “responsabilità d’impresa”, diritto all’accesso all’acqua e al cibo, necessità di rivedere gli stili di vita, eccetera. Nemmeno una parola sulla necessità di combattere il land grabbing che impoverisce gran parte delle popolazioni del sud del mondo, né sulla necessità di contrastare la privatizzazione dell’acqua e dei beni essenziali, né sugli idrocarburi e le pratiche insostenibili di estrazione di gas e petrolio. In pratica una totale rimozione delle responsabilità della politica e delle multinazionali. Alla fine anche molte associazioni che avevano preso parte al tavolo di discussione hanno rimarcato la loro delusione per i risultati raggiunti rifiutando di firmare la Carta, come l’Ong Oxfam, Slow Food e la Caritas. I movimenti per i beni comuni hanno invece approvato un comunicato che definisce la Carta di Milano un documento che “sci­vo­lerà nella sto­ria senza inci­dere alcun­ché, legit­ti­mando ancora il modello agroa­li­men­tare che ha pro­dotto inso­ste­ni­bi­lità, disa­stri ambien­tali e le ter­ri­bili ini­quità che vive il nostro mondo e che la stessa Carta denun­cia ma igno­rando lo stra­po­tere poli­tico delle mul­ti­na­zio­nali, che stanno den­tro ad Expo e che sot­to­scri­vono la Carta”.

L'albero della vita non verrà smantellato
L’albero della vita non verrà smantellato
3. L’AREA EXPO DOPO L’EXPO, E ADESSO COSA SUCCEDE?

L’Expo è stato preceduto dalla costruzione di una serie di opere che hanno cambiato i connotati a una buona fetta del territorio lombardo. Non solo con le grandi vie di comunicazioni costruite per agevolarne l’accesso, come la nuova linea della metropolitana ed i raccordi autostradali come la BreBeMi e la Pedemontana, ma anche con l’edificazione degli stand su 1.700.000 mq di superficie ed altri 2.100.000 mq di superficie per strutture di servizio e supporto. Tra tutti le costruzioni nell’area della fiera solo quelle più iconiche non saranno smantellate: padiglione Italia, padiglione Zero e Albero della vita. Tutto il resto sarà demolito o messo all’asta (sui singoli stand decideranno gli stati e le aziende proprietarie con l’unico vincolo di dover lasciare libera l’area). Su ciò che sorgerà dopo c’è confusione totale, nessun piano è stato approvato in questo senso e, ciò che è più grave, nessun disegno ideale su ciò che l’area dovrebbe diventare pare esserci: una latitanza totale che coinvolge stato, amministrazione regionale e locale. Le ipotesi vanno dalla costruzione del nuovo stadio del Milan alla vendita di lotti di terreno separabili, ad altre sicuramente più interessanti per la cittadinanza come la creazione del nuovo polo scientifico dell’Università Statale e l’edificazione di una cittadella dell’innovazione, che ambisca ad essere la “Silicon Valley” italiana dell’agricoltura e dell’agroalimentare. Forse questo sarà il punto chiave per dare un vero e proprio giudizio su ciò che Expo è stato per il paese, se si sarà in grado di far sì che al suo posto sorgano nuovi luoghi per la cultura e la sostenibilità tutto acquisterà, almeno in parte, senso, se invece non diventerà altro che una nuova area cementificata da lottizzare e dare ai costruttori sarà l’ennesimo colpo a un territorio già colpito da decenni di cementificazione selvaggia. Ancor più grave perché commesso proprio laddove sarebbero dovute nascere nuove “energie per la vita”, come recitava il roboante slogan dell’esposizione.



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