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Approfondimento e commento sentenza assoluzione per la coltivazione di una piantina

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Pubblichiamo il commento del nostro legale di fiducia relativo alla sentenza che ha assolto un ragazzo di 23 anni sorpreso con una piantina di marijuana sul balcone della sua abitazione. Come spesso succede in questi casi, la disinformazione sull’argomento è dilagata e molti media hanno riportato la notizia che ora, dopo questa sentenza, è “legale coltivare cannabis ad uso personale“. Non è assolutamente così ed è nostro compito cercare di fare chiarezza a riguardo.

La sentenza, che si commenta, conferma l’opinione – più volta espressa da chi scrive – che gli indirizzi giurisprudenziali che riguardano la rilevanza penale della coltivazione di piante che possano produrre sostanze stupefacenti, risultano, allo stato attuale, tutt’altro che pacifici ed univoci.

La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, infatti, rompe il fronte della giurisdizionale di legittimità (sino ad oggi granitico e costante nell’affermare sic et simpliciter l’illiceità penale della condotta coltivativa) e coglie l’occasione per porre l’accento sullo specifico elemento dell’offensività dell’azione, inteso quale discrimine fra fatto-reato e fatto-non reato.

La sentenza segna, pertanto, un primo, seppur timido, passo di allontanamento rispetto a quelle più conservatrici e radicali posizioni assunte dalla giurisprudenza, le quali hanno trovato la loro massima espressione nella nota sentenza delle SS..UU., 24 Aprile-10 Luglio 2008 n° 28605.

Con tale pronunzia veniva negata, infatti, ogni distinzione fra la coltivazione domestica e coltivazione agraria, categorie fattuali che erano state elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, onde potere operare una concreta distinzione fra condotte che presentavano – guarda caso – proprio stimmate di offensività tra loro evidentemente e sostanzialmente differenti.

Pur con grande prudenza, la sentenza che si commenta evidenzia, infatti, come proprio questo negativo pronunziamento delle SS.UU. si sia soffermato, con specifica attenzione, proprio sul tema dell’offensività, conferendo al medesimo, rilevante importanza.

La Quarta Sezione, quindi, attraverso un’esposizione articolata di vari esempi normativi nei quali emerge la strategicità del concetto di offensività, dimostra, però, di avere iniziato un’opera di recepimento e metabolizzazione dell’insieme delle considerazioni formulate in plurime sentenze pronunziate dai giudici di merito sull’argomento.

Va, infatti, detto che, nonostante il distinguo sopra richiamato, le SS.UU. avevano tassativamente confinato la coltivazione all’interno del recinto dell’illecito penale, disattendendo, così, il principio, in base al quale si evocava la necessità di una verifica effettiva e reale della sussunzione della condotta coltivativa nella parte precettiva della norma incriminatrice.

L’importanza della pronunzia della Quarta Sezione consiste, quindi, nell’avere privilegiato non già un dato astratto (il divieto precettivo assoluto della coltivazione), bensì un riferimento concreto che è relativo alla idoneità del prodotto della coltivazione a produrre effetti droganti.

Non si tratta, quindi, di un mutamento giurisprudenziale di carattere, sostanziale od epocale.

Né si può seriamente sostenere che, con la pronunzia in questione, si preluda alla immediata scelta di assimilare taluna ipotesi di coltivazione alla detenzione non punibile, ritornando, quindi, ad elaborazioni concettuali analoghe al concetto di coltivazione domestica.

Il dato di fatto e di diritto da cui muovere è, quindi, che la coltivazione non può apparire penalmente rilevante, quindi, quando il numero delle piante piantumate e la produzione, così, ottenuta appaia talmente minima da non porre minaccia ai beni della salute o della sicurezza pubblica. L’orientamento della Suprema Corte, dunque, si pone nel senso che il limite, in base al quale la condotta coltivativa diviene offensiva (e dunque assume importanza penale) è dato o dal superamento della soglia drogante, oppure dalla oggettiva modestia del numero della piante (apparentemente meno rilevante e di mero corollario apparirebbe – il condizionale è d’obbligo – l’insieme delle modalità) attraverso le quali la coltivazione si esprime.

Non è però casuale, quindi, che la sentenza del giudice di legittimità qualifichi l’azione incriminata come “coltivazione domestica” (e non si può pensare né ad un lapsus od ad un refuso), muovendo, pertanto, da quella disamina complessiva dell’azione – all’apparenza relegata ai margini dei criteri decisionali – dalla quale emergano in concreto parametri estremamente minimali.

Possiamo, quindi, pensare che, in virtù di questi segnali seppure contraddittori, si sia innescato un processo di irreversibile e progressiva modifica interpretativa in senso favorevole alla coltivazione?

La risposta, in proposito, è assai ardua ed il quesito impone grande prudenza, perché non è dato sapersi se la sentenza della Quarta Sezione sia frutto di una valutazione estemporanea e contingente, oppure essa se mira ad introdurre progressivamente un approccio meno giustizialista al tema in questione.

Certo è, che il requisito della inoffensività appare costituire un elemento che ben si coniuga con comportamenti che appaiano inequivocabilmente preliminari e strumentali ad usi strettamente personali di sostanze stupefacenti, quale è la forma di coltivazione a suo tempo definita domestica.

La Corte, in buona sostanza, fa rientrare (dalla finestra ed in maniera assai cauta) nell’alveo delle categorie interpretative, il concetto di coltivazione domestica (intesa come azione scriminata, cioè non punibile).

Tale principio pareva, invece, essere stata espulso dalla porta principale, con il pronunziamento delle SS.UU., e così si alimentano ulteriori incertezze ermeneutiche.

Si deve, inoltre, osservare che, se – come pacificamente sancito in dottrina e giurisprudenza – lo scopo perseguito dal complesso delle norme sugli stupefacenti è di carattere preventivo, in quanto mira al contrasto della minaccia che le citate condotte determinano per i beni giuridici della salute e sicurezza, venendo, così, conferito ai delitti inseriti nel dpr 309/90, il carattere di reati di pericolo, l’offensività dell’azione (e la sua antigiuridicità) dovrebbe essere ritenuta in re ipsa, senza dovere verificare limiti di sorta in ordine al quantitativo.

Il parametro valutativo dell’offensività dovrebbe, quindi, produrre effetti – ai fini decisori – limitati e circoscritti solo alla graduazione ed individuazione del livello di gravità del fatto-reato.

La sua ravvisabilità o meno dovrebbe apparire strumentale al giudizio di configurabilità concreta e di successiva applicabilità di eventuali circostanze attenuanti od aggravanti.

In realtà, a ben guardare, la stessa Corte non rimane affatto immune dall’indubbio fascino giuridico, che comporta una disamina sia concernente il quantum di principio attivo ravvisabile nella fattispecie (mg. 16), [sì che tale canone conferma il sua carattere di centralità anche in relazione alla coltivazione], sia relativo al numero di piantine (1) trovate all’atto della perquisizione.

E’, dunque, indubbio che, al di là di vere e proprie astratte petizioni di principio (quale ad esempio la proclamazione della rilevanza penale della coltivazione in qualunque forma essa venga svolta) palesatesi anche ai massimi livelli giurisdizionali di legittimità – vedi SS.UU. -, sopravvive, invece, la auspicabile tendenza ad una valutazione concreta dei singoli episodi, si da potere derivare un serio giudizio di illiceità o meno.

In quest’ottica ermeneutica, si rinviene, quindi, la contraddizione che la sentenza in questione permette di cogliere e che, comunque, apre una crepa nell’architettura giurisprudenziale in tema di coltivazione ed impone un intervento normativo in relazione alla tematica in questione, che non pare può dilazionabile, pena ulteriori estemporanee sortite giudiziarie, che minano la certezza del diritto ed ingenerano solo confusione.





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